Camminamento incerto

“Ogni sentiero, in quanto cammino della ricerca umana è a un tempo via e sviamento, avanzamento e smarrimento.” (P. Chiodi)
Il “cammino”, tema che ha tradizioni antichissime nella storia dell’uomo, sia nell’espressione artistica che letteraria.
Considerato metafora della condizione di vita (dalle civiltà nomadi alla fuga dall’Egitto del popolo ebraico alla ricerca della Terra promessa) e, più in generale, del viaggio spazio-temporale che l’uomo compie con il proprio ciclo vitale, esso costituisce un momento di riflessione e progettazione del futuro oltre che di rivisitazione del passato, del percorso già effettuato.
L’opera in esame nasce così da un’idea semplice: di fatto è una sorta di pavimento su cui camminare, un’azione del tutto usuale, ripetitiva, scontata e quotidiana; la sua superficie però non è piana e questo scarto rende incerto il procedere. Ciò comporta implicazioni di ordine etico, morale, religioso. Camminare su un terreno sconnesso implica saggiare concretamente le difficoltà del vivere quotidiano, dell’andare avanti, e “sentire, con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Implica il dover prestare attenzione a dove si mettono i piedi. Riflettere su dove si va e fare i conti con le incertezze, i dubbi, i tranelli e le cadute della vita. Si carica così del peso della storia, quella storia che, da sempre, tenta di dare risposta all’eterna domanda che l’uomo si pone circa il proprio senso d’esistenza. Non ha però alcuna risposta da offrire; pone semplicemente, ancora una volta, la domanda. E lo fa nella consapevolezza della sua pericolosità perché ciò può portare non solo all’inconcludenza, ma anche allo smarrimento.
Heidegger in proposito parla di holzwege, cioè di quei sentieri (wege) che spesso, ricoperti di erbe, ingannano, interrompendosi improvvisamente nel fitto del bosco (holz). “Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto”. Infatti chi li conosce sa bene “che cosa significa trovarsi su un sentiero che interrompendosi svia”. Non per ciò però ci è concesso di fermarci o di indietreggiare di fronte al cammino e l’inquietudine delle difficoltà non può giustificare la rinuncia al percorso. Anzi, analizzando gli sviluppi della società contemporanea, Galimberti invita ad un cambiamento del costume, dell’etica.
L’uomo, visto nel suo cammino, il “viandante”, deve continuamente riprendere il viaggio. Non con lo spirito dell’Ulisse omerico che percorre il suo viaggio raggiungendo le mete per poi abbandonarle, mete di passaggio, provvisorie e casuali in attesa di far ritorno a ciò che ben conosce, alla certezza iniziale, bensì l’Ulisse dantesco che affronta il terreno impervio e accidentato del nuovo viaggio per mare senza una meta. Senza conoscere ciò che l’aspetta, intento solo a superare gli ostacoli che l’avanzare comporta. E poco importa che al termine soccomba senz’aver trovato nulla (ha solo intravisto ciò che non potrà raccontare), perché comunque nessuno sa cosa c’è. Sempre Galimberti chiarisce che “senza meta e senza punti di partenza e di arrivo che non siano punti occasionali, l’etica del viandante, che non conosce il suo avvenire, può essere il punto di riferimento di un’umanità a cui la tecnica ha consegnato un futuro imprevedibile, e che quindi non può riferirsi alle etiche antiche, la cui normatività guardava al futuro come a una ripresa del passato, perché il tempo era iscritto nella stabilità dell’ordine naturale.”
Colui che cammina non può farlo pensando di essere in piano e il riferimento torna a Nietzsche: “Io sono un viandante che sale su pei monti, diceva Zarathustra al suo cuore, io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. E, quali siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere, vi sarà sempre in essi un peregrinare e un salire sui monti”. Ciò che si vuole evocare con questo lavoro è perciò quello che ancora Galimberti chiama “etica del viandante, che ha rinunciato alla meta ultima, sa guardare in faccia all’indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami della speranza irradiati da un destino risolto in benevola provvidenza”. Etica del viandante quindi, non come “anarchica erranza”, ma nomadismo il cui significato è insito nell’accadimento stesso, non nel senso finale, nella meta o nel progetto, ma nell’abitare il mondo della casualità nella sua innocenza. Questo camminare si iscrive allora in un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché ci porta a sfiorare l’abisso, dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare. Perché, come suggerisce Machado: “Viandante, le tue orme / sono il cammino, e nulla più; / viandante, non esiste il cammino / la via si fa / con l’andare. / Viandante, non esiste il cammino, / ma scie sul mare”. In queste tre affermazioni il poeta spagnolo sintetizza la sua riflessione sul dubbio, l’angoscia e il tempo. Dubbio sul senso della vita, sul suo punto d’arrivo, sulla maniera di giungerci; angoscia dovuta alla mancanza di certezze. Il tempo resta l’unica realtà e la teoria machadiana della temporalità fissa anche qui il valore del viaggio nel suo tempo vivo. Nel momento stesso in cui esso si compie, in bilico tra un passato ormai morto e un futuro ignoto: “Tutto passa e tutto resta; / ma è proprio di noi passare, / passare aprendo cammini”.
Questo errare è tanto più significativo nel mondo attuale perché gli anni che stiamo vivendo hanno visto avviarsi quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia.
Un’ulteriore riflessione che l’installazione vuole suggerire è relativa alla percezione spaziale in rapporto alla corporeità, Il tema è stato ampiamente trattato da Sini che, fra l’altro, sottolinea come “il camminare dell’uomo è un continuo interpretarsi simbolico in base alle distanze col mondo, distanze che egli è e porta con sé da sempre e per sempre, che lo fanno quell’uomo che è, che fanno la sua esperienza concreta. In lui è un continuo accadere, aver luogo, evenire del segno, un continuo “parlare”: parlare che non è nell’uomo, ma che è l’uomo. Con lui, si potrebbe dire, cammina tutto il mondo della sua esperienza, con le sue tipiche distanze; con lui camminano tutti i cammini già compiuti”.
Ma, al di là di queste ed altre possibili implicazioni di natura astratta, d’ordine filosofico e letterario – che hanno solo il compito di dare degli spunti di lettura - il visitatore-fruitore non si dovrà limitare a guardare, ma sarà invitato a camminare sopra l’opera e, nell’esperienza concreta, camminando, sentirà sbriciolarsi sotto i suoi passi le parti più fragili del pavimento - quelle incenerite - che verranno frantumate, ridotte in polvere. Farà perciò l’esperienza del consumare lo spazio, il tempo, la vita, se stesso. Al termine del percorso trascinerà con sé i segni del proprio andare, dell’esperienza vissuta; i piedi lasceranno il segno nero della cenere di cui si è impregnato, con la consapevolezza che “Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal mistero”


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