Un filo nero
Gruppo Koiné

Nero, non rosso è il filo che percorre i padiglioni del manicomio, che li raccoglie, li annoda, li deforma nella percezione, nel pensiero, nel ricordo. Lo spazio e il tempo sembrano essere sospesi all’Osservanza. Sembra che l’orologio si sia inceppato e che tutto, di conseguenza, si sia fermato per incantesimo. Un orologio dove le lancette non ci sono più, un quadrante vuoto, un ticchettio assente. Allora lo sguardo attonito di chi vi si trova inizia a vagare e perdersi e insieme la mente tenta un’impossibile ricostruzione del passato. I pensieri si rincorrono e si affastellano di fronte a ciò che è stato e mai avrebbe dovuto essere.
Si resta sgomenti davanti alla sequenza razionalmente spietata e fredda delle rigide geometrie degli edifici. Un lager ante litteram. Poco importa che non siano sopravvissuti i reticolati di mattoni, i muri della vergogna; l’occhio li vede lo stesso, la mano li tocca incredula. Si fatica a pensare a cent’anni di dolore, sofferenza, privazioni, disumanità. Si cerca di convincersi che forse tutto questo sia servito a qualcuno, a qualcosa. Si cerca di trovare un senso a questo luogo, come se “un senso” potesse almeno giustificare, nella nostra ingorda razionalità, l’inaccettabile. E il filo nero inizia a farsi spazio in noi. Un sottile disagio. Lento, ma inesorabile. Un dubbio sulla nostra salda normalità. La lucidità vacilla e ci permette di ritrovare ancestrali paure, ansie. Quei dubbi e quei retaggi sopiti, sprofondati nell’inconscio da tempi remoti. E affiorano così le angosce che avremmo voluto sepolte per sempre. Accade che ci si immedesimi senza volerlo. Trascinati inconsapevolmente dall’aria che si respira. Ci si sente pazzi. Quasi. Quanto basta a domandarsi di questo e di quello. Ed è come essere in gabbia, come camminare sui propri passi in circolo, svuotati.
Una visita allo spazio dismesso, agli stanzoni nudi, alle celle spiate, ai viali deserti; un sopralluogo e via, a casa. Con il vagone delle sensazioni sul quale far viaggiare pensieri, progetti di opere e installazioni. Ci si sente inadeguati, quasi si violasse l’intimità di coloro che vi son rimasti rinchiusi. Quasi non si fosse degni. Ladri di spazi “sacri” e di vissuti drammatici. Così il pensiero instabile prende sempre più forza, sbilancia, disorienta, fuorvia e si insinua costante nella riflessione artistica, ma anche, e più in profondità, esistenziale. Rimette in discussione l’arte, la vita.
Che la follia non sia arte è scontato, come pure il suo contrario. Ma è anche vero che nella creazione frammenti di imponderabile follia si affacciano sistematicamente. In un segno, volutamente abbandonato e fuori da ogni controllo. Guidato dall’istinto. In un tema ossessivo ripreso mille e mille volte ancora. In un fantasma che sempre ci accompagna. E si lavora su un crinale incerto, sul superamento involontario di una soglia proibita, sul filo nero e tagliente dell’equilibrio precario dal quale si cade più e più volte. Alla ricerca di una più profonda lucidità. Della “follia”. Questo è stato ed è il nostro manicomio. Un tormento durato un anno e che ora portiamo con noi insieme alla leggerezza inaspettata e libera di un filo fatto di piume bianche.

dal catalogo “Osservanti osservati”


> 2006 Cedimento - Imola